domenica, aprile 13, 2008

Manoscritto trovato ad Aix-en-Provence

Oggi, invece di gettare uno sguardo disilluso al presente, mettiamo il culo sulla macchina del tempo e diamo un'occhiata nostalgica, tenera, commossa, ma soprattutto cosciente che il passato deve restare tale, a quel che successe proprio qui ad Aix-en-Provence ben sette anni fa, quando il sottoscritto, nel pieno del suo periodo pop, vi giunse per la prima volta in circostanze che non esiterei a definire rocambolesche.

Già all'epoca, novello Chatwin dei poveri affetto da una forma acuta di grafomania, annotavo minuziosamente le mie esperienze di viaggio a beneficio di amici e sconosciuti. Quella che segue è la fedele riproduzione di quanto ebbi a scrivere nel corso del mio precedente soggiorno; narrazione bruscamente interrotta per il sopraggiungere di altri fattori, prima più, poi meno piacevoli. A mia memoria non è mai stata divulgata, e la ripropongo così come l'ho ritrovata in un vecchio floppy prima di partire, senza tagli e senza le altrimenti opportune correzioni. I critici più attenti riconosceranno, in embrione, molti dei temi che hanno reso celebre la mia penna, nonché alcuni passi poi rimaneggiati in altre apprezzate pubblicazioni; parimenti, accoglieranno con bonaria superiorità le falle di un manoscritto mai sottoposto a revisione, così come la mediocrità di uno stile ancora infantile e bisognoso di cure.

Ecco dunque il manzoniano testo:

Eravamo dalle parti di Aix-en-Provence, a circa duecento chilometri dal confine con l’Italia, quando le droghe cominciarono a fare effetto.

Eccomi qua nella vecchia Aquae Sextiae di cui quasi tutti si ricordano dai tempi del liceo, la città di Cézanne, dipartimento numero 13, Bouches-du-Rhône. L’Italia non è poi così lontana; quanto basta, comunque, per sentire un po’ di suoni nuovi nell’aria. A venti minuti di macchina con un pazzo al volante ecco Marsiglia, altresì nota come la Napoli francese (i napoletani avrebbero ragione ad offendersi), e le sue spiagge.

È passato già un bel po’ da quando sono arrivato, carino, ingenuo e vispo come il primo album dei Blur. Senza che me ne accorgessi nemmeno sono già passati il Carnevale – qui nessuna traccia di frittelle, pernacchie o nasi finti – e persino il festival di Sanremo con la Raffa e le solite canzoni contro la stipsi. Se mi capita di ricordarmi dell’Italia, è solo perché ogni tanto tira un vento che mi fa ripensare a certe mattine a Trieste. Anche se questo mistral tiepidino alla cara vecchia Bora le fa una sega. Non che sia mancato il brutto tempo, quello che ti fa tirare giù tutti i santi del calendario. Un giorno, dopo un pomeriggio di pioggia e freddo bastardi, ha addirittura preso a nevicare in modo preoccupante. Se penso che quando sono arrivato la prima cosa che ho fatto è stata rimboccarmi le maniche della camicia e cacciare il giaccone nell’armadio… Era febbraio, pareva di essere in maggio e io già bestemmiavo come un turco, convinto di aver sballato in pieno il guardaroba. Ancora adesso non si capisce mai che tempo faccia, si alternano giornate di gelo polare e altre in cui non si riesce neanche a mettere il naso fuori da quanta afa c’è. Mi viene da chiedermi dove cazzo sono capitato.

Dopo aver passato giorni e giorni a correre come un pirla da un capo all’altro della città tra scartoffie di ogni genere, e molti altri a trovare il modo meno traumatico di fare il mio dovere di studente fuori sede, finalmente ho il tempo di mettermi tranquillo a lasciare le prime tracce scritte del mio passaggio. Stendo le mie memorie nel caso non dovessi sopravvivere, magari accoltellato dal clan dei marsigliesi. E questa, come ho avuto modo di constatare di persona, non è nemmeno una possibilità troppo remota. Una sera stavo andando a cena pensando ai cazzi miei, quando tutt’a un tratto mi sono trovato circondato da tre magrebini che manco mi arrivavano alle spalle, ma decisamente massicci. Uno dei tre mi spinge contro la rete, tira fuori il coltello a serramanico e me lo preme contro la pancia urlandomi di cacciar fuori il cellulare. Riesco appena a dire che non ce l’ho, quel cazzo di cellulare, quando il figlio di puttana mi toglie sghignazzando il coltello dalla zona ombelico e se ne va con gli altri due, sempre ridendo sguaiatamente. Che abbia rinunciato perché stava arrivando gente o che quello fosse solo un modo idiota di spassarsela, mi fa poca differenza. Mi sono talmente cagato addosso che non ho nemmeno trovato la forza di urlargli dietro. Vi assicuro che sentirsi una lama premuta contro la pancia è qualcosa di cui si fa volentieri a meno. A quanto pare, però, in questo paese arretrato cose del genere sono all’ordine del giorno, se in una rivista ho persino trovato un articolo dal titolo “Come rifiutare di dare una sigaretta e salvare la pelle”. Quella sera ho giurato a me stesso che non mi incazzerò più quando sentirò al tiggì che qualcuno ha fatto saltare le cervella a un rapinatore o a chi cazzo per esso. E mi sono anche venuti seri dubbi sull’opportunità dell’obiezione di coscienza. Cretino come sono l’ho chiesta ormai da tempo, privandomi per sempre della gioia di girare con una 44 magnum sotto la giacca e di far saltare le cervella a qualche tossico stronzo prima che me le faccia saltare lui. Questo anche per dire che in questi cinque mesi non mi sono fatto mancare nessuna esperienza. Chiusa la parentesi.

Sulla copertina dell’album degli Alpha il gatto con lo sguardo allucinato mi fissa come una vacca indù. Stasera è già tardissimo e mi si chiudono letteralmente gli occhi ma non vale nemmeno la pena di andare a letto, perché nella stanza vicina c’è un ritrovo di negroni che, dopo aver impestato per bene il corridoio cucinando chissà che merda, stanno facendo un bordello indescrivibile. Sono ore e ore che sghignazzano a volume altissimo, solo che nessuno ha il coraggio di fiatare perché sicuramente sono tutti alti due metri e larghi uno, tengono una minchia tanta e sono perennemente incazzati, i nipotini di Mike Tyson. Tra l’altro queste camere hanno delle pareti che definire tali è esagerato: diciamo che le stanze sono separate da una filigrana grazie alla quale si sente anche se un cinesino scorreggia dieci stanze più in là. Per non parlare di quando il mio vicino pusher si apparta con la sua tipa, e io devo cacciarmi la testa sotto il cuscino per non sentire i vari mugolii e sospiri del caso.

E comunque adesso non ho scelta, devo trovare un’attività alternativa al sonno, anche se il fatto che per attaccare il computer debba per forza staccare la luce è un po’ deprimente… Sì, benedette le batterie, ma fatto sta che in tutta la stanza c’è una sola presa. Tra l’altro è pure a due punte e qui non esistono riduttori, trasformatori e simili meraviglie della civiltà del progresso. Dio caro, vanno a rompere i coglioni agli atolli in giro per il mondo ma una spina a tre punte non sanno neanche cosa sia. Fosse questo l’unico problema avrei poco da lamentarmi, ma già il primo impatto con la nuova sistemazione non è stato dei migliori.

Quando ho varcato la soglia della camera 2003 (cité universitaire de Cuques, padiglione 2, pianoterra, in fondo a sinistra) non sapevo nemmeno dove posare le valigie, tanto era minuscola e tanta era la quantità di merda sparsa in ogni angolo. Se è così che sistemano uno che in quel buco di culo ci deve vivere cinque mesi, scucendo anche fior di quattrini… È vero che sugli studenti in scambio ci marciano dappertutto ma cazzo, almeno restare nei limiti della decenza. Fanculo.

La stanza che mi è stata così generosamente assegnata è divisa in due da una specie di enorme cassettone che sta giusto in mezzo ai coglioni e che fa da armadio, mensola, comodino, guardaroba, cambusa, eventualmente angolo liquori e tutto il resto. Il letto consiste in una rete di ferro quasi sfondata che praticamente tocca terra, poggiata su quattro piedini patetici. Il materasso è in realtà una specie di tappetino da ginnastica, ed è infilato in un’enorme busta di plastica a mo’ di preservativo. L’unica cosa che si salva è la scrivania; peccato che la sedia sia stata letteralmente squartata da qualche mio predecessore, che ha aperto con cura certosina il cuscinetto togliendo buona parte dell’imbottitura. C’è anche una specie di poltroncina ma non si capisce che cazzo ci stia a fare, in una topaia del genere non mi pare che sia il caso di invitare tanti ospiti.

Dall’altra parte del cassettone multiuso c’è il cosiddetto “coin lavabo”, l’angolo del bagno, ovvero un lavandino che pare sia stato preso a martellate, con il bordo tutto scheggiato e percorso ovunque da crepe. Inoltre le parti di metallo hanno lo stesso colore delle catene delle ancore quando le si tira fuori dopo averle lasciate un mese nell’acqua del porto… Non so se avete presente. Stesso discorso per il bidè, che comunque pare sia una sciccheria visto che non dappertutto si può godere della sua rassicurante presenza. Del resto è perfettamente inservibile, visto che è per metà sotto il lavandino e dall’altro lato è attaccato al muro. Nemmeno Iuri Chechi riuscirebbe a pulirsi il culo in una trappola del genere.

Lo stato delle piastrelle è pietoso, non ce n’è una che sia intera o che non balli la tarantella ogni volta che ci si cammina sopra. Inoltre per terra ci sono macchie e righe nere apparentemente indelebili, cosicché il pavimento sembra sempre sporco anche da appena lavato. Le pareti sono abbellite da una carta da parati color post-sbornia, pazientemente scollata qua e là. Inchiodata al muro c’è persino una lavagna che porta i segni di tutti coloro che si sono ingegnati per conficcare le puntine da disegno nell’ardesia. La finestra è un vetro lurido diviso in tre parti, e la persiana è costituita da un’elegante tavola di legno scorrevole con chiavistello. La finezza delle rifiniture fa sì che entrino spifferi terribili, vere e proprie correnti d’aria che giovano immensamente al mio raffreddore. Senza contare che la direzione ha ben pensato di tenere i termosifoni al minimo, specie nelle giornate più gelide. Per tutto il primo mese non c’è stato un giorno che non avessi naso chiuso e pacchetto di fazzoletti in mano. Lo spazio tra il vetro e la tavola all’occorrenza fa da frigo, almeno finché la temperatura lo permette. Anche se dei frighi ci sarebbero, e in teoria ognuno dovrebbe avere il suo personale. Peccato che la maggior parte dei nostri predecessori abbia avuto la bella trovata di chiuderli con un lucchetto e di ingoiare la chiave. Naturalmente il negrone della portineria non ne vuole sapere di metter mano al tronchesino, e così mi tocca accontentarmi. Però cazzo.

L’aspetto così gradevole e accogliente della mia stanza ha fatto sì che cominciassi a chiamarla affettuosamente “il loculo”. Da cui il frasario assortito “Stasera che fai?” “Mah, mi sa che resto nel mio loculo”, “Stasera mangiamo nel mio loculo”, “Oggi ho fatto le pulizie, sono una vera donna di loculo”, e via dicendo.

Guardando più attentamente la porta della camera noto, tra i segni delle coltellate e della colla, gli angoli delle figurine che c’erano attaccate prima che qualcuno le strappasse malamente. E dato che si tratta di figurine della nazionale italiana, il mio intuito da Sherlock Holmes mi suggerisce che il loculo ha già ospitato un italiano. È improbabile che un giovane oltralpino non preferisca attaccare le facce da culo dei suoi amati Zidane o Trezeguet (troppo facile obiettare che stronzi del genere potevano giocare solo in una squadra…), no? Con ogni probabilità, quindi, di qua è già passato un mio connazionale. Il che confermerebbe la mia personale teoria secondo cui il corridoio in cui mi hanno piazzato è una sorta di ghetto in cui scaricare gli individui più abietti e le razze più fetenti agli occhi della grande Francia. Probabilmente per il solo fatto di abitare in una di quelle stanze, mi hanno già scambiato prima per tunisino e poi per cinese. Ce ne vuole di fantasia, cazzo.

Io ho preso a chiamare il corridoio “il binario morto” perché a un certo punto si interrompe bruscamente su una porta che nessuno sa dove dia, e non si vede mai un’anima in giro. Nei giorni di sole la luce che entra da una serie di feritoie illumina un po’ il bianco delle pareti, rendendolo molto somigliante al corridoio di un ospedale psichiatrico. Il paragone con “Shining” rende abbastanza bene l’idea.

Su ogni piano dello studentato c’è una cucina ridotta veramente all’osso, cioè quello che qui chiamano “cuisinette”. Le cuisinette consistono in un bancone tipo lavatoio da campeggio, munito di un lavandino e di una doppia piastra elettrica su cui, secondo il regolamento, “non si può cucinare ma solo riscaldare il cibo”. Questo non impedisce che le cucine siano piene, a tutte le ore del giorno e della notte, di gente che diffonde per tutto il piano puzze di ogni genere. Solenni cipollate, calamari, polpette di merda, ancora devo capire che cazzo cucinino, fatto sta che il passaggio di tutti questi cuochi del cazzo lascia regolarmente la stanza in uno stato rivoltante. Una sera ho addirittura trovato il pavimento cosparso di capelli, che qualcuno aveva deciso di farsi tagliare proprio lì, dove tutti gli altri fanno da mangiare. E visto che si trattava di capelli lisci e nerissimi, temo che quel qualcuno fosse uno dei musi gialli di cui il piano abbonda. Certo che da loro non mi aspettavo una porcheria del genere.

E io soffro di non poter avere a disposizione una cucina decente in cui dare sfogo alla mia passione culinaria mentre sorrido sornione a qualche bella fanciulla, o semplicemente preparare qualcosa di commestibile. Rimpiango la cucina di Trieste, centro del mio microcosmo come in “Kitchen” di Banana Yoshimoto, dove passare anche delle ore a rilassarsi, tagliuzzare, mettere in ordine, provare e riprovare, in un’atmosfera quasi ascetica. A tutto questo, purtroppo, devo rinunciare e spesso devo subire la tristezza delle varie mense, dove per la miseria di 16 franchi ricevo un servizio completo. Compresi gli sguardi delle cuoche, profondamente deluse di non essere riuscite a rifilarmi würstel e pesce al mercurio.

Naturalmente ogni padiglione e ogni zona della “cité U”, come la chiamano tutti – mannaggia ai francesi e alla loro mania idiota per le abbreviazioni – hanno le loro caratteristiche. In particolare, a quanto pare, la cattiva fama di ciascun padiglione aumenta col crescere del suo numero progressivo. In base a questa regola generale, io che sto nel padiglione 2 – o P2, naturalmente – non sarei messo nemmeno troppo male. Ma il P4, secondo la definizione di un mio collega, “è la Colombia”, e non voglio neanche immaginare che cazzo succede negli altri.

Un capitolo a parte lo meritano i cessi. Tutti gli abitanti degli altri casermoni invidiano i cessi del mio piano, e ne hanno ben donde. Per quanto assurda possa suonare un’affermazione del genere, direi che sono una ventata di freschezza in questo corridoio lercio. Luce a volontà, termosifoni a palla così almeno non ti geli il culo, tazze comode, docce bollenti… Una vera boccata d’aria. In particolare le docce sono una meraviglia, visto che naturalmente sono molto poco frequentate. D’altra parte, vivendo insieme a gente che con ogni probabilità vive rotolandosi nei propri escrementi, non mi aspetto certo di trovare fuori la coda. Peccato che questi animali soffrano di gravi disturbi sinaptici a livello del collegamento cervello-culo, che impediscono loro di individuare anche vagamente lo spazio delimitato dal bordo della tazza. A quanto pare, poi, lo sciacquone è considerato una raffinatezza da snob, per cui ci si imbatte regolarmente in cessi che sembra siano stati appena bombardati da bovini volanti. La qual cosa ha spinto le donne delle pulizie – signore piene di iniziative che conviene tenersi buone – ad attaccare un cartello con la scritta, piena di errori di ortografia e che traduco al volo: “Viene da chiedersi se siate adulti o poppanti. I cessi vanno rispettati come tutto il resto. Ma visto che la merda vi piace tanto, tenetevela”. Da altre parti è comparso un foglio con la foto di un bel cesso e la scritta “Bisogna tirare lo sciacquone? Sì!”, un altro in cui si spiega la posizione delle varie religioni nei confronti della merda, e persino una pagina di istruzioni sull’uso dello scopino del cesso, questo sconosciuto. Di recente hanno avuto un’altra bella trovata, appendendo alla porta del primo bagno il cartello “Riservato alle persone pulite, grazie”. I miei colleghi, dopotutto persone rispettose, pur di non passare per appartenenti alla categoria indicata hanno preferito girare al largo.

C’è pure qualcuno che si è attrezzato in modo piuttosto fantasioso contro la sporcizia dilagante. So di una tipa, e purtroppo è italiana, che si è addirittura comprata un intero copriwater, con l’asse e tutto il resto. Quando la natura chiama, questa parte verso i cessi col rotolo di carta da culo in mano e tutto l’armamentario a tracolla. Per forza la mia amica che vive sullo stesso piano, la prima volta che ha visto una scena del genere, è dovuta correre in camera a rotolarsi per terra dalle risate.

La cosa sicura è che quei cessi ne hanno viste di tutti i colori… E non mi riferisco alle chiappe di quelli che se ne sono serviti per rispondere al richiamo della natura. Una sera, per esempio, mi stavo lavando beatamente, quando nella doccia due porte più in là sono entrati un tipo e una tipa e si sono messi a spassarsela unendo l’utile al dilettevole, senza fare una piega. E io, come un coglione, a cacciarmi il bagnoschiuma nelle orecchie cercando inutilmente di non sentire. Roba da non credere.

La mia prima preoccupazione, superato lo shock iniziale, è stata quella di cominciare una radicale opera di pulizia, ma ancora mi mancavano i mezzi per affrontare l’impresa. Niente scopa, niente detersivi, un cazzo di niente. Se non altro ho scoperto che spazzoloni e affini si possono prendere in prestito in portineria lasciando la carta d’identità. Bof. Dopo essermi procurato vari detersivi al discount più marcio che ho trovato, mi presento pieno di buona volontà in portineria per farmi dare il resto della roba. Alla mia richiesta la donnina fa una faccia indescrivibile, come se non avesse capito una beata di quello che le ho detto. E sì che il francese mi pare di saperlo bene, cazzo. No, ha capito benissimo, ma credo che la mia richiesta le sia suonata molto strana. Devo dedurre che i miei vicini suini non puliscono nemmeno in camera loro? Pare proprio che sia così, perché quando la donnina mi apre l’armadietto delle scope vedo che è tutto praticamente nuovo e in perfetto ordine.

La prima passata ha portato alla luce grumi di polvere da far vomitare, e alla fine è venuto fuori un cespuglio grosso come un gatto che non ho potuto fare a meno di immortalare in una foto che farà scalpore, così a casa farò vedere come trattano noi terroni nel resto d’Europa. Vinto il primo round contro il lerciume, il giorno dopo è già tutto da rifare. Mi sono reso conto presto che qui le pulizie sono una fatica di Sisifo, ma mi rifiuto di vivere nella cacca come la gentaglia che mi circonda.

Anche nella sublime arte del bucato a mano do il meglio di me. Pulisco con cura maniacale il lavandino bombardato, lo riempio d’acqua bollente e ci metto a mollo la mia robaccia. Poi mi ficco le cuffie nelle orecchie e mi guardo schifato nello specchio mentre insapono, sfrego, bestemmio tra i denti, schizzo per terra, bestemmio di nuovo ma stavolta a voce alta, strizzo, appendo il tutto. Non avendo uno stenditoio, per poter asciugare la roba ho fatto un lavoro degno di un ingegnere, ammirato da tutti i miei rari ospiti. Ho tirato un paio di fili attraverso la stanza, tra il bastone della tenda e una gamba del soppalco sopra la porta. La soluzione si è rivelata stranamente azzeccata, perché posso stendere il bucato senza che rompa i coglioni penzolando ad altezza testa. L’unico inconveniente è che, una volta messa la roba ad asciugare, si crea un imbarazzante “effetto favela”, come l’ho battezzato la prima volta che ho steso calze e canotte. Ultimamente, visto che lo scazzo ha cominciato a farsi sentire più forte che mai, ho ceduto al compromesso e mi sono rassegnato a usare le lavatrici della casa dello studente. Premetto che ho un odio viscerale per la lavatrice, mostro alienante e incomprensibile, con tutti quei cazzo di programmi, sportellini, temperature e tasti. Ma se voglio essere un vero uomo di casa, mi sono detto, devo superare anche questo ostacolo.

Un ostacolo che, invece, mi ha subito messo a dura prova è stata l’invasione delle formiche. Avrei dovuto aspettarmelo, visto che sotto la finestra ho un praticello con tanto di siepe, e tutto dà una certa idea di selvatico. Quello che non mi aspettavo è che l’assalto sarebbe stato così massiccio. Già la vita nel loculo era difficile, ci si dovevano mettere anche gli animaletti rompicoglioni. Visto che si trattava di qualcosa di più di una semplice visita ho chiamato dalle profondità del mio io la mia parte più spietata e sadica, ho disseminato la camera di un formichicida ultraconcentrato con la forza del napalm e ho aspettato. Da quel giorno nessun rompiballe con le antenne ha più osato farsi vedere nel loculo, né tantomeno attentare alle mie preziose provviste.

Nella prima settimana non solo non ho conosciuto neanche un francese, ma nemmeno qualcuno che avesse un nome normale. Già che la mia memoria per i nomi è pietosa. I nomi delle ragazze non me li cavano dalla testa neanche con l’elettroshock, ma gli altri li dimentico nel momento stesso in cui li sento, o forse nemmeno li sento. Questo è quello che è successo con la marea di tunisini, senegalesi, vietnamiti e affini che hanno incrociato la mia strada nei primi tempi.

La prima persona in assoluto che ho conosciuto è stato un tunisino occhialuto subito soprannominato “il Gufo”, responsabile della sala computer dello studentato, personaggio equivoco al centro di continui scherzi e dello sputtanamento generale, arrapato perenne senza speranza. Una volta ha cercato addirittura di combinare una serata a quattro, io, lui e due ragazze italiane che appena l’hanno visto hanno tagliato la corda. Un’altra volta si è rotto i denti, un occhio e un braccio in una rissa con un marocchino che voleva usare i computer senza averne diritto. Memorabile in quella stessa occasione l’intervento di Haythem, il mio buonissimo vicino pusher, che ha spaccato una sedia di metallo sulla schiena del marocchino sotto i miei occhi. Anche il povero Haythem aveva proprio una sfiga nera: durante un’altra rissa io ho rischiato di essere centrato da una bottiglia che mi è volata a mezzo metro dalla testa, lui invece si è preso una terribile bottigliata in testa da un barbone. La mattina dopo l’ho visto emergere dalla sua stanza con tutta la testa e la maglia sporche di sangue. Il dialogo alla finestra è stato più o meno questo: “Come stai?” “Ho un gran mal di testa” “Ma come hai fatto a dormire?” “Sono svenuto sul pavimento e mi sono svegliato adesso” “…”.

Angus era un londinese arrivato nel corso di cinese appena dopo di me: due metri di muscoli e cattiveria, basetta a punta da tamarro, sempre in pantaloni di pelle e maglietta nera, e pesantissimo accento cockney. A parte tutto, un inglese del tutto anomalo. Qualche anno fa era stato sulle Alpi, dalle parti di Bergamo, dove si era innamorato della polenta e dell’olio d’oliva. La sola cosa che faceva di lui un buon inglese era il fatto che la mattina a lezione non lo si vedeva mai perché quasi ogni sera si faceva delle bevute mostruose. Gli piaceva cucinare e fare arti marziali; certi pomeriggi si chiudeva nella sala video della biblioteca e si sparava ore e ore di film cinesi; e diceva che voleva fare sport perché non aveva la morosa. Cazzo, come lo capivo. Ti credo che andavamo tanto d’accordo.

Nel mio corso c’era anche un tunisino piuttosto anomalo. Già un tunisino che studia cinese fa una certa impressione; in più aveva questi capelli lunghi mezzi neri e mezzi grigi che, insieme alla barba, lo facevano somigliare più che altro a un santone o a un maestro di karate. In più di nome faceva Jihad, al che ho preso subito a chiamarlo affettuosamente “Guerrasanta”. Costui andava in estasi mistica ogni volta che gli si parlava di arti marziali; quando era stato in Cina si era fiondato immediatamente al tempio di Shaolin e, anche se aveva ammesso di sentirsi “un sacco di dollari con due gambe e un braccio per tirar fuori il portafogli” non aveva resistito alla tentazione di comprare una spada lunga un metro per cinquemila lire. Inoltre conosceva tutto il trash italiano degli anni ’70 e ’80 con relative battute, e aveva un piccolo culto per l’Attila magistralmente interpretato da Abatantuono. Del resto tutti i tunisini che ho conosciuto hanno un repertorio comune di italianità che va dalla Carrà a Pippo Baudo, da Sanremo a Lino Banfi, dalle canzoni di Toto Cotugno a Beato tra le donne, e il buon Guerrasanta non faceva eccezione. Insieme facevamo le ore piccole unendo i nostri sforzi per tradurre chilometri di letteratura cinese, insieme discutevamo dell’attualità del taoismo di Zhuangzi, insieme ci voltavamo a guardare le fanciulle convinte che fosse già arrivata l’estate, insieme soffrivamo della freddezza delle donne locali nei nostri confronti.

C’era poi Jorge, un portoghese che, essendo l’unico del suo paese, legava subito con chiunque gli capitasse a tiro. Un pazzo che parlava una strana mistura di lingue neolatine, la sera girava in maglietta e sciarpa urlando “Paris, ville lumière!”, diffondeva il verbo del drum’n’bass e, come tutti, si rattristava a vedere come fossero gelide le giovani indigene. Cercava inoltre di convincerci che in Portogallo la tecnica di seduzione è molto più semplice. Secondo la sua definizione, il giovane fighetto portoghese si comporta come “le mec des cavernes”, che in italiano suonerebbe più o meno come “il ganzo delle caverne”. Il che significa scegliere una vittima, darle una botta in testa con una clava e trascinarla per i capelli fino all’alcova. Oh yeah.

Sono capitato all’università di Aix in un periodo di scioperi e manifestazioni a ripetizione. Dopotutto non vedo perché in Francia dovrebbero avere più voglia di lavorare che a casa nostra… Semmai è vero il contrario, l’impressione è che ovunque aleggi un’immensa voglia di non fare un cazzo. Quasi ogni settimana, nella hall dell’università, c’è un festone con tanto di DJ, pista da ballo e gente con zaini pieni di birre da spacciare a prezzi da strozzini. Il deforme Karim, che si dedica a questa nobile attività, diceva: “qua tutti vogliono distruggere il capitalismo, io invece lo sfrutto”. Devo dire che in questo non era cretino come sembrava, dopotutto.

Ho subito pensato di approfittare dell’atmosfera festaiola per allargare la cerchia delle mie conoscenze femminili, ma me ne è passata la voglia quando ho visto che di donne compiacenti non c’era manco l’ombra. A una di queste feste ho conosciuto il primo francese bianco, tale Sébastien di Montpellier, pieno come una gubana, che subito mi ha preso da parte e mi ha esposto il Sébastien-pensiero: “E allora, come va con le francesi? Sai, le italiane non mi piacciono perché parlano, parlano, e alla fine non te la danno, invece con le francesi basta avere un po’ di rispetto e dicono sempre di sì. Sai, io ho viaggiato tanto, sono andato negli Stati Uniti e in un casino di altri posti, ma alla fine devo dire che le francesi sono le migliori. E anche tu, se vuoi, puoi fare sesso con lei, con lei, con lei (indicando le malcapitate), basta che ci sia rispetto, il rispetto è importante, se non c’è rispetto allora no, non va, ma se ci sai fare, allora puoi fare flup flup (movimento pelvico avanti-indietro) con chi ti pare. Però, parli francese proprio bene, hai giusto un accentino italiano ma non è un problema, anzi, conservalo, alle donne piace sentire un accento italiano, ascolta il mio consiglio, conservalo”.

Io il suo consiglio l’ho seguito ma altro che Sex-en-Provence, qua sono tutte dei pezzi di ghiaccio. Persino una mia collega finlandese, lungi dal farsi prendere dal fuoco della passione alla vista di un giovane mediterraneo, si è rivelata la più suora e scorbutica di tutte. Preso dallo sconforto, mi sono lanciato in un disperato tentativo di conquistare le muse gialle del mio corso, cosciente del fatto che si trattava di una battaglia persa in partenza. Anche solo far parlare una cinesina è un’impresa che ha dell’impossibile, figurarsi il resto. Nessun successo nemmeno con una siciliana, che credevo di aver già conquistato con la mia esperienza di uomo di casa che cucina, fa il bucato a mano, stira e lava la camera con cura certosina e tocco femminile. Mi illudevo che, quel giorno che mi aveva sorpreso a pulire il pavimento del loculo, fosse rimasta affascinata dalla mia abilità scopatoria. E anche con la sua amica di Salonicco non è servita a nulla la mia conoscenza della lingua greca: la sua non me l’ha fatta conoscere.

A questo punto, su queste note di tormentata profondità intellettuale, il manoscritto si interrompe. Vecchio scarpone, quanto tempo è passato...

  • The Streets, A Grand Don't Come for Free
  • The Streets, Original Pirate Material
  • Down, Down III - Over The Under

1 commento:

Sparrow ha detto...

whaha... 真棒!