sabato, dicembre 30, 2006

Memorie dal sottosuolo - Parte seconda

Quando mi sono liberato da palla e catena lasciandomi alle spalle l’azienda che vendeva emozioni, tutto mi sarei aspettato fuorché di ritrovarmi supplente di francese per due mesi alle scuole medie statali nonché, a stretto giro di posta, supplente di inglese alle scuole professionali private. Un piacevole e tutto sommato redditizio diversivo nella mia abituale attività di dottorando / traduttore / interprete / insegnante serale di lingue / gigolò d’alto bordo. Non che non avessi cercato già in precedenza di entrare nell’incantevole mondo dell’educazione dei giovinetti, ma stavolta il tutto è obiettivamente successo un po’ troppo in fretta. Non mi ero ancora lavato via la puzza di iguana, che già avevo il culo su una cattedra e la borsa piena di registri e materiale vario in lingua d’oïl.

Al di là della discutibile emozione di far parte – anche se solo per due mesi – della categoria degli statali e della conseguente, sublime sensazione di rubare lo stipendio a fine mese, questa breve ma decisamente intensa esperienza di pedagogo dell’età adolescenziale ha avuto il merito di aprirmi gli occhi sulla vera natura di coloro che incarneranno l’Italia del futuro. Posso dunque affermare con un minimo grado di consapevolezza e cognizione di causa che, per usare un grazioso eufemismo, sguazziamo e ci voltoliamo nella merda più nera.


LA MALA EDUCACIÓN

Gente che si alza dalla sedia senza chiedere il permesso, che schiamazza durante la lezione, che dà tranquillamente del tu agli insegnanti, che appena si abbassa un attimo la guardia prende dallo zaino il cellulare e inizia a smanettare o a fare foto a tradimento, che si lascia andare a sonore flatulenze ed eruttazioni in mezzo all’ilarità generale (rivendicando poi orgogliosamente la paternità del rutto o della scorreggia in questione!), che striscia la macchina alla prof che li ha rimbrottati, che risponde con tono di sfida, che minaccia compagni e professori, o che semplicemente non ha voglia di fare un cazzo e viene a scuola solo per scaldare la sedia è ordinaria amministrazione, e in quanto tale tollerata, quando non giustificata.

Da dove nasce il problema? Io, che pure non sono uscito dalla scuola ere geologiche fa, non ricordo niente del genere. Amnesia? Alzheimer? Freudiana rimozione delle esperienze spiacevoli? Mia madre e una sua collega, da me interpellate sull’argomento, affermano dall’alto della loro esperienza pluridecennale che la putrefazione del comportamento scolastico ha avuto inizio una decina d’anni orsono. Ora che l’argomento mi toccava da vicino, dal momento che ogni santo giorno tornavo a casa spossato dopo ore passate urlando e scrivendo note, mi sono preso la briga di informarmi. Scartata la possibilità di ottenere opinioni intelligenti dalle persone che mi stavano intorno – ero entrato in una certa confidenza con un bidello che mi pareva più illuminato di tanti sedicenti pedagoghi… fino al giorno in cui non mi ha rivelato che la maleducazione dei ragazzi è “tutta colpa della società” – ho visionato alcuni articoli e saggi brevi sull’argomento.

Ebbene, la tesi che va per la maggiore pare sia quella secondo cui i genitori di oggi sarebbero i ragazzi usciti dal ’68, e in quanto tali cresciuti con un’idea malata di ribellione e di resistenza anche alle più innocue forme di autorità. Idee malsane che, a quanto pare, hanno trasmesso ai figli, i quali crescono rincoglioniti con la complicità di tv, videogiochi e compagnia bella, e dalla mattina alla sera accumulano cazzate su quanto la scuola non serva a un cazzo e su quanto cretini siano gli insegnanti. Oppure – più probabilmente, dico io – ai figli non hanno trasmesso proprio un bel niente, in nome di una fantomatica educazione libertaria o del semplice “fate un po’ quel cazzo che vi pare”. Il brutto è che i genitori dei nani stronzi che mi rompevano il cazzo la mattina me li ritrovavo poco più tardi ai corsi serali, dove potevo sondare gli stessi sconfortanti abissi di ignoranza e ottusità. Che sia proprio l’imbecillità la chiave per colmare il gap generazionale?


LA RISPOSTA È DENTRO DI TE, E PERÒ È SBAGLIATA

Molti dei rappresentanti delle nuove generazioni hanno manifestamente perso il sano misto di deferenza e di buon senso che sussisteva fino a non troppo tempo fa, e che li tratteneva dal prendersi confidenze non richieste né concesse nei confronti dei loro pur giovani insegnanti. Questa perniciosa e ormai incontrovertibile deregulation ha fatto sì che certe fanciulle si prendessero la libertà di mettermi a parte di una mia presunta somiglianza con Johnny Depp (ultima mia asserita incarnazione dopo Steven Seagal, Charlie Sheen, David Beckham e Orlando Bloom), al che io le ho prontamente umiliate con un “se fosse vero non sarei certo qui” che le ha offese e zittite una volta per tutte.
È successo, inoltre, che mi venissero posti a bruciapelo quesiti di vari livelli di impertinenza e offensività, a cui non solo mi rifiutavo di dare risposta, bensì reagivo con memorabili cazziatoni, provvedimenti disciplinari e ulcere epatiche.
In ordine sparso:
- Professore, lei è comunista?
- Professore, lei è gay?
- Professore, com’è la sua vita sessuale? Sinceramente, eh.
- Professore, sabato sera viene con noi al Max (pseudo-discoteca della zona frequentata per lo più da bambini e da adulti in piena sindrome di Peter Pan… o di Marcinelle, N.d.R. )?
- Professore, anche lei aveva il motorino elaborato?
- Professore, ci fumiamo un cannone?

N.B. Le domande sopra riportate sono state, nella maggior parte dei casi, sottoposte a una drastica traduzione dal dialetto all’italiano.


CULTURA? PURCHÉ SIA DI RADICCHIO

Come potevo pretendere di insegnare una lingua straniera a microcefali che nemmeno riuscivano a formulare una semplice frase in un italiano decoroso, senza cedere alle lusinghe di un dialettaccio grossolano e gutturale, che dalla culla alla tomba costituirà la loro unica lingua di comunicazione?
Come potevo richiedere la melodia e la raffinatezza dei suoni nasali del francese o il rigore della lingua del Bardo a cavità orali da cui non è mai uscita, né mai uscirà, una parola che non sia un improperio da scaricatore di porto o una lista di pezzi di ricambio per il motorino?
Come potevo immaginare che un branco di illetterati per vocazione, il cui universo inizia in garage e finisce nel bar dietro casa, apprezzasse l’idea di conoscere una lingua e una cultura diverse dalla propria, sperasse di varcare per una volta i confini nazionali per vedere qualcosa di diverso dal prosecco e dalle marmitte Giannelli, gioisse all’idea di allargare i propri claustrofobici orizzonti da eterni asini?

Pensare che c’era addirittura chi, alle professionali, tentava di convincermi che il mio era un ruolo fondamentale perché quei poveri ragazzi, prima o dopo, avrebbero dovuto affrontare… un manuale di istruzioni in inglese. Quanto a me, resto convinto che quei “poveri ragazzi” (o, come direi io, quelle vite perse in partenza) di un libro non abbiamo mai letto nemmeno il titolo. Tuttavia, dal momento che – la notizia mi arriva alle orecchie proprio oggi – pare che il 40% degli insegnanti italiani legga un solo libro all’anno, non vedo perché, con certi modelli, quei beoti dovrebbero crescere meglio. Alle professionali, tra l’altro, i testi erano ancora più idioti di quelli in uso alle medie, un vero insulto alle facoltà intellettive di un normale essere umano. Un rapido sguardo, e mi sono subito reso conto che i libri delle medie stavano a quelli delle professionali come Umberto Eco sta ai Teletubbies.

In questo cupo scenario di miseria spirituale si immettevano inserti di ingenua e francescana semplicità come l’espressione di un ragazzotto che, alla fine delle lezioni del sabato, diceva tutto compiaciuto al compagno: “Domenega vae tor de chei bei brisòt!” (Domenica vado a raccogliere dei bei porcini grassocci, N.d.R.).
Sono stato molto vicino all’ammirare quella contentezza primitiva, scatenata dalla semplice prospettiva di una spedizione micologica nei boschi, e di fronte a quegli occhietti socchiusi per la soddisfazione ho invidiato nel profondo chi ha avuto in dono una simile incoscienza del mondo. Purtroppo la mia concezione progressista e profondamente antimaoista mi impedisce di apprezzare chiunque perpetui un modello paleolitico di comunità umana, i popoli raccoglitori, l’esaltazione dei cosiddetti valori contadini contro quelli intellettuali, chi si rotola beato nella tradizione più retriva, chi guarda con sospetto le lettere: in una parola, chi ignora bellamente cosa ci sia oltre il suo orticello coltivato a radicchio di Treviso D.O.P.


SQUARCIARE IL VELO DI MAYA

Uno dei fatti più sconcertanti è la strenua riluttanza, anche da parte dei colleghi insegnanti più illuminati, a riconoscere che il materiale umano che infesta le aule è composto per il 95% da stronzetti che vivono in un’eterna ricreazione delle facoltà cerebrali. Non vi dico il mio tormento nel sentire i colleghi, in consiglio di classe, prendere le difese di questo o quell’alunno, cercando persino di giustificare il suo incolmabile abisso culturale e umano con osservazioni piene di humana pietas come “viene da una famiglia disagiata”, “è un ragazzino difficile”, “va motivato”. Stronzate. Era evidente che il soggetto in questione, molto semplicemente e senza bisogno di scomodare i signori sociologi (che, per inciso, da sempre considero ciarlatani da oratorio), non aveva voglia di fare un beneamato cazzo.

Così, un bel giorno, interpellato sulle possibilità di miglioramento di uno dei suddetti scansafatiche mascherati da bambini in difficoltà, stufo di questo buonismo inconcludente ebbi a enunciare la mia opinione in forma di metafora: “Gli asini giovani, crescendo, diventano asini vecchi, non cavalli”. Sull’angusta stanzetta adibita a luogo di discussione cala il silenzio. Il collega di ginnastica (pardon, “educazione motoria”) tenta di sdrammatizzare ridacchiando: “Sapete, lui è stato in Cina, di questi proverbi ne conosce tanti”.
Mi ero già convinto di essere passato ancora una volta per il solito bastardo incapace di giudizi sfumati. Da quel giorno, però, ho scoperto nei corridoi che il mio proverbio era ormai sulla bocca di tutti i colleghi, che se lo scambiavano con sornioni cenni d’intesa. La falsa, cattolica, pelosa comprensione verso i cosiddetti “meno fortunati” aveva finalmente lasciato il posto alla tragica ma inconfutabile realtà fattuale: c’era solo bisogno di un bambino che dicesse che il re è nudo.


UNO SPETTRO SI AGGIRA TRA I BANCHI DI SCUOLA

Non che mi aspettassi di trovare, né alle medie né alle professionali, un ambiente in cui la multiculturalità è considerata fattore di progresso, e in cui a tutti – bianchi, gialli, neri, verdini e amaranto – viene data a priori la stessa possibilità di dimostrarsi personcine ammodo. Non mi aspettavo certo tanto, in una zona come quella dove mi trovo a vivere, dominata dal pensiero debole di contadini analfabeti, arricchiti e vestiti a festa, di un’ignoranza e di una grettezza senza eguali, che verso qualsiasi cosa esuli dal loro piccolo meschino mondo di zappatori con la grana – così come verso qualunque forma di VERA cultura, poiché rifiuto di considerare tale vino e scarpe da ginnastica – provano una diffidenza ancestrale, radicata e indiscussa.

Detto questo, le scuole in cui ho avuto la sfortuna di svendere il mio povero sapere (soprattutto, come si può ben immaginare, le professionali) sono le fucine in cui si forgiano i nazisti del futuro, ovverosia le persone comuni. Già dalle scritte fatte col bianchetto su zaini e astucci era palese il fascino esercitato su questi bambocci dai proclami leghisti e da quelli di
certi personaggi che nella mia regione hanno visto la luce e, per nostra fortuna, sono anche schiattati: inni alla grande terra padana, croci celtiche e uncinate in bella mostra (spesso furbamente accostate ad A cerchiate), proclami hitleriani e quant’altro.
La cosa non stupisce, se pensiamo che, proprio come nelle alte sfere vaticane, anche nei consigli di classe il problema principale sembrava essere la salvaguardia delle radici nazi-cristiane locali e della fede cattolica contro l’avanzata delle forze del male: relativismo, secolarismo e, soprattutto, Islam. Non che me ne freghi niente di difendere l’Islam, anzi: abbiamo visto che, purtroppo, sa difendersi egregiamente da solo e, quanto a me, non ho ragioni per ritenerlo più o meno falso e vomitevole di qualunque altro credo. Ammetto, però, che mi ha fatto un certo effetto sentire un rispettabile preside di scuola media rifiutare a un bambino marocchino la richiesta di esonero dalle ore di religione (pardon, “comunicazione etico-religiosa”), adducendo diplomaticamente presso noi colleghi la seguente spiegazione: “Detto tra noi, Gesù ha da insegnare qualcosa di ben migliore rispetto a Maometto”.

Anche sul piano verbale la situazione non è delle più rosee: adusi a prendersi a male parole per tutto il tempo e a voce alta – preferibilmente durante la lezione – i miei discepoli e le mie discepole hanno fornito al mio sensibile orecchio di linguista un nutrito campionario di contumelie. In leggera flessione i classici insulti omofobico-razzisti come frocio, negro, ebreo, zingaro e marocchino; in rapida ascesa quelli di recente introduzione come albanese, magrebino (talvolta abbreviato in magrebo), slavo di merda. Interessante notare come, spesso e volentieri, gli emittenti di tali insulti appartengano alla stessa etnia cui fa riferimento l’insulto stesso. Non attestati, forse per timore di legittime ritorsioni da parte della Triade, cinese e muso giallo.
Ma l’offesa che va per la maggiore, surclassando la concorrenza di tutte le altre ingiurie, è comunista. Quando, durante una lezione, ho dovuto dividere la classe in due gruppi, uno da un lato della classe e uno dall’altro, ho assistito a un sollevamento popolare: nessuno voleva stare nel gruppo di sinistra, adducendo spiegazioni degne di un cerebroleso sull’incompatibilità dello spostamento con la propria fede politica. Del tutto inutile la conseguente sfuriata in cui stigmatizzavo l’uso di irrisioni a sfondo etnico-sessual-politico minacciando provvedimenti: non è servita assolutamente a nulla. Se non, per l’appunto, a qualificarmi ai loro occhi come uno sporco comunista.


CONCLUSIONE: NON PROPRIO COME UN ROMANZO

Solo una volta passato dall’altra parte della barricata, quindi, mi sono reso conto di quanto improbo e ingrato sia il lavoro dell’insegnante dell’età adolescenziale, che pure in gioventù anch’io guardavo con tanto sospetto.
Di fronte a tanto torpore neuronale e letargo dell’intelletto, di fronte all’inanità di ogni sforzo teso a estrarre tanti deficienti dallo sterco in cui sono inabissati, nessuna persona che abbia provato cosa significa stare dietro a una cattedra negherebbe all’attività dell’insegnante la qualifica di lavoro logorante, al pari di minatori e vigili urbani. Siamo ben lontani dalle idilliache descrizioni della vita di classe fatte da Pennac in Comme un roman.
E così, qualche giorno fa, sono andato in visita pastorale dalla mia vecchia prof di latino e greco – recentemente sottopostasi a un radicale restyling che me l’ha fatta ritrovare con capello e occhiali fucsia – e l’ho messa a parte della mia tardiva illuminazione. Senza dire niente, mi ha messo una mano sulla spalla e mi ha ufficialmente nominato suo compagno di sventura.

1 commento:

Massaccesi Daniele ha detto...

Incredibile. Come te sono stato in Cina, sono tornato in Italia e ora mi ritrovo a fare il professore, a varcare la soglia, a sedermi non sui banchi ma sulla cattedra non per ribellione ma per professione. Incredibile. "Professor Massaccesi" mi suona male, anche se mio padre è professore da vent'anni e passa, mia madre maestra di scuola materna e i miei nonni lo erano di scuola elementare.
Non dovevo leggere il tuo post. Mi hai spezzato le gambe in partenza. Io insegnerò cinese presso un Istituto Commerciale a ragazzi di 16-18 anni. Inizio la prossima settimana; sono un po' agitato, non ricordo l'ordine dei tratti del carattere NI "tu" e ho la salivazione azzerata. Domanda: se dirò ai ragazzi che con la morte di Mao la Cina ha cominciato a trasformarsi e oggi è il paese più capitalista al mondo, daranno del comunista anche a me?!
Ho passato un grandioso capodanno. Vomito alla sola idea di dovermi rimettere sulla tesi e sulle burocrazie universitarie. Ma ora penso andrò anche in paranoia per questo lavoro di insegnante...
Stammi bene

Daniele